Vi trasmetto l' articolo che ho scritto sulla vicenda del San Raffaele
per la rivista Il Margine.
Di questa illuminante storia italiana si occuperà anche Report nella puntata
di domenica 11 dicembre.
Chi ci salverà? Forse le Banche, la Massoneria, il Vaticano?
Da anni sento sotto i piedi l' abisso. E da anni, per non scivolarci dentro, mi
aggrappo a un filo d'erba. Mi ci aggrappo... e tiene...
Ci risentiamo nel 2012, auguri di un bianco Natale
Giovanni
p.s. Allego anche l'email che ho scritto a settembre sul caso Penati e
che molti di voi non hanno ricevuto.
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«Non credevo che la vita fosse così lunga»
Note in libertà su don Verzè e il San Raffaele
L’unico che poteva scrivere un vero articolo su don Luigi “Maria”
Verzè – il «Maria» è una libera aggiunta del don, di seguito “il
dV” – e sulla sua creatura, il San Raffaele – «pietra di Dio
che guarisce», di seguito “il SR” – non c’è più. Era Mario Cal,
il suo braccio destro, l’amico fraterno, il Supersigillo (vedi sotto
chi sono gli esoterici Sigilli), per 21 anni vicepresidente operativo
della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor (di seguito “la
Fondazione”). Il 18 luglio scorso si è sparato un colpo in testa,
lasciando due lettere e 12 scatoloni di documenti ora all’esame dei
giudici.
Un altro che dovrebbe scrivere ma non può più farlo, per le sue
precarie condizioni di salute, è il cardinale Carlo Maria Martini. Un
vero peccato, avrebbe potuto spiegarci meglio le sue parole del 14 marzo
2010, durante la festa per il 90° del dV (sul palco dei festeggiamenti
c’erano, insieme col Cardinale, Silvio Berlusconi e Ferruccio de
Bortoli), così riportate il giorno dopo dal Corriere della Sera
(articolo a p. 8 di Paolo Foschini): «Lo amo e lo stimo tanto – dice
Martini … Martini ha pronunciato l’elogio genetliaco del suo amico
“San Luigi” (un lapsus applaudito: “Ho precorso i tempi” ha
poi scherzato il Cardinale) elencandone le doti: “audacia
dell’aquila, coraggio del leone, passo felpato dell’antilope”.
E dicendone la “prudenza del serpente” ha citato il corrispondente
termine greco, che implica “saggezza ma anche astuzia e direi
furbizia”».
Altri ancora che dovrebbero sentire l’urgenza morale di scrivere sono
i filosofi dell’Università Vita – Salute (sulla nascita della facoltà
vedi la mia invettiva La strana coppia Cacciari – don Verzè, “Il
Margine” 6/2002). Nomi d’eccellenza, dotati di altissima visibilità
mediatica. Parlano su tutto ma proprio su tutto, in particolare sulle
nefandezze dell’amico del dV (tema arcinoto e in fondo neanche così
eccitante), non hanno molto da fare, almeno in Università (gli iscritti
al primo anno sono una ventina), ma finora non hanno trovano il tempo e
l’ardire di interrogarsi in profondità su quel che sta succedendo in
via Olgettina. Dopo qualche dichiarazione sulla “libertà non
negoziabile” assicurata dal prete, si sono chiusi in un
incomprensibile silenzio. E dire che la materia su cui philosophari è
piuttosto ampia.
Ubi deficiunt equi, trottant aselli. Accontentatevi dunque di qualche
nota in libertà di un quidam de populo. Provo a riassumere per punti lo
stato dell’arte.
Lo stato dell’arte (a fine ottobre 2011)
1. Il SR è una potenza sanitaria di prim’ordine. Sorto nel 1969
nell’hinterland milanese per ispirazione divina («Il nostro primo
azionista è Cristo», ha detto più volte il dV) e dall’iniziativa
dell’Associazione Centro di Assistenza Ospedaliera S. Romanello
(trasformatasi poi nella Fondazione), è un’eccellenza in Italia e in
Europa, una vedetta della ricerca, una struttura privata accreditata che
accoglie decine di migliaia di pazienti, e a cui la Regione Lombardia
versa ogni anno più di 400 milioni. Nel corso degli anni l’attività
della Fondazione si estende ben oltre l’IRCCS (Istituto di Ricovero e
Cura a Carattere Scientifico) di Milano 2: si va dagli altri ospedali in
Italia e all’estero (India e Brasile), all’Università Vita –
Salute (facoltà di medicina, psicologia, filosofia), dalle società di
servizi e di edilizia alle biotecnologie, dai laboratori di ricerca alle
aziende agricole, dagli alberghi di lusso a una casa editrice.
2. Questa imponente corporation, dopo aver attraversato varie e anche
burrascose crisi di crescita, negli ultimi anni scivola progressivamente
in una profonda crisi finanziaria. All’inizio del 2011 diventa urgente
trovare un nuovo assetto patrimoniale e gestionale. L’amico Silvio
viene sentito per primo. Ma la sentenza della Corte d’Appello sul Lodo
Mondatori – che ha imposto a Fininvest il pagamento di 560 milioni di
euro alla holding di Carlo De Benedetti – congela le intenzioni del
premier, non più in grado di venire incontro alle necessità dell’amico
prete. Mentre si ipotizza una cordata di salvatori, guidata da Giuseppe
Rotelli, uno dei maggiori imprenditori della sanità lombarda e italiana,
si mette in moto il segretario di Stato Vaticano, il cardinal Tarcisio
Bertone, con due suoi uomini di fiducia, il banchiere Ettore Gotti
Tedeschi, presidente dello IOR, e il manager della sanità Giuseppe
Profiti, presidente dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma.
3. Esaminata la situazione, il cardinal Bertone decide di intervenire.
Il 15 luglio una nuova squadra entra nel Cda della Fondazione: oltre a
Profiti e Gotti arrivano altri due uomini di Bertone, l’ex
guardasigilli Giovanni Maria Flick e l’imprenditore cattolico genovese
Vittorio Malacalza. Completano il board Massimo Clementi, preside della
facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Vita Salute, e
Maurizio Pini, professore di accounting della Bocconi. Il dV resta sì
Presidente ma senza più deleghe operative. A Profiti, nominato
vicepresidente, toccano tutti i poteri di ordinaria e straordinaria
amministrazione.
4. Tre giorni dopo, il 18 luglio, si suicida Mario Cal. Nessuna
dichiarazione ufficiale da parte della Fondazione.
5. Le pressioni della Procura di Milano per avere quanto prima un piano
di risanamento costringono il Cda al lavoro per tutta l’estate. I
revisori di Deloitte, il superconsulente Enrico Bondi, i legali dello
Studio Origoni chiariscono le cifre: i debiti ammontano a un miliardo e
mezzo di euro; solo nel primo semestre del 2011 le perdite si attestano
sui 40 milioni di euro; ci sono centinaia di fornitori dell’ospedale
che non vengono pagati da due anni e sono anch’essi sull’orlo del
fallimento.
6. Il 14 settembre viene presentata al Cda l’offerta dello Ior e di
Vittorio Malacalza. Essa prevede il salvataggio di quasi tutte le
attività ospedaliere e di ricerca con il relativo personale (3.800
dipendenti). Il corrispettivo è di 250 milioni di euro, oltre
all’accollo di passività stimabili in circa 500 milioni di euro.
Secondo il progetto, le attività e le passività saranno trasferite a una
nuova società: controllata da quest’ultima nascerà una Fondazione che
avrà esclusivamente compiti di salvaguardia dello spirito originale e
che potrà continuare a ricevere i contributi del cinque per mille. La
vecchia fondazione incasserà il valore della nuova società, dismettendo
le attività rimaste e pagando i creditori (i privilegiati in forma
piena, i chirografari in una misura ridotta, dal 52 al 60 per cento).
7. Mentre il Cda analizza il progetto, il 23 settembre la Procura di
Milano, constatato lo stato di insolvenza, chiede il fallimento del SR.
Il Cda della Fondazione si dà una mossa: il 7 ottobre approva
definitivamente l’offerta Ior-Malacalza e dà mandato ai legali di
presentarla, sotto forma di richiesta di concordato preventivo, al
Tribunale fallimentare. Il 21 ottobre si dimettono all’improvviso i
consiglieri Massimo Clementi e Maurizio Pini: «per motivi strettamente
personali», recita il comunicato ufficiale.
8. Il 28 ottobre il Tribunale di Milano dà il via libera alla proposta
di concordato preventivo e nomina come commissari Rolando Brambilla,
Luigi Giovanni Saporito e Salvatore Sanzo. A loro spetta il compito di
“sorvegliare” un Cda in palese conflitto d’interessi con gli
offerenti Ior- Malacalza e di tenere aperta la porta ad altre eventuali
offerte. I creditori hanno tempo fino al 23 gennaio 2012 per esprimersi
sulla proposta: senza la loro approvazione, il piano salterà.
Da questi dati emerge una situazione non ancora definitiva ma dai
contorni già chiari. È finito il SR di dV e, come capita alla fine di
ogni epoca importante, c’è da riflettere a lungo per capire, imparare,
cambiare. Per questo – ripeto – è sorprendente il silenzio dei
maitres à penser. Perché non parla almeno lui, il capo indiscusso,
Massimo Cacciari? «Ormai è la mia voce» disse dV in un’intervista del
2007. In attesa di qualche cenno dell’alto, pongo io tre domande dal
basso. Sono le stesse che si fa pure la mia portinaia (non scherzo,
l’ho testata, non siamo al livello della Renèe de L’eleganza del
riccio ma quasi). Alle domande rispondo con la mia opinione, la mia
doxa. Di doxa in doxa possiamo tentare di avvicinarci alla verità,
all’aletheia, allo svelamento (tutto con la minuscola, le maiuscole
non sono in nostro potere).
Chi è don Verzè?
Prima domanda: ma chi è davvero il dV? L’ho visto di persona solo in
due occasioni, ho letto alcune sue interviste, ho raccolto pareri da
dipendenti del San Raffaele e ho letto svogliatamente uno dei suoi
libri, Siamo tutti nella stessa barca, scritto a quattro mani con il
cardinale Martini (sempre lui!), pubblicato nel 2009. Come posso
giudicarlo? Infatti non lo giudico, faccio solo parlare la mia pelle
(Pelle per pelle, tra l’altro, è il titolo della autobiografia scritta
con Giorgio Gandola, edita da Mondadori nel 2004). Secondo me il dV, a
dispetto dell’abito di manager, giacca e cravatta d’ordinanza, e
delle sue ardite proposte di riforma della Chiesa, è un tipico prete
veneto della generazione preconciliare. E come tutti (o quasi) i preti
di quella generazione si sente un eletto che non è tenuto a rispettare
le regole del mondo. Ciò spiega la sua allergia per le leggi (è stato più
volte indagato e condannato in primo grado, salvato in seguito dalla
prescrizione) e la sua totale avversione per il pareggio di bilancio.
Dio mi ha chiamato, io ho risposto, son diventato prete, non sono più
come gli altri cittadini, son legibus solutus, la Provvidenza
provvederà, chi può fermarmi? Così pensa il prete vecchio stampo
della cristianità lombardo-veneta.
Per di più, dV è un prete che vuole diventare un fondatore. La tensione
per l’opera l’ho vista da vicino in molti parroci ambrosiani che si
sono dannati l’anima pur di costruire chiese e oratori (è stato
chiamato il “culto della pietra”). In dV questa tensione s’è fatta
ossessione, spinta irrefrenabile verso obiettivi altissimi, per superare
pure il suo maestro, il beato Giovanni Calabria. Ogni fondatore, per
essere tale, deve usare un linguaggio immaginifico, biblico-sacrale;
deve attorniarsi di seguaci fedelissimi; deve cercare alleanze con i
potenti di turno. E tutto questo ha fatto dV, dimostrando un’abilità e
una spregiudicatezza fuori dal comune. I suoi discorsi slittano
facilmente dalla scienza alla fede, dalla teologia alla taumaturgia. Al
SR i simboli e le frasi bibliche sono ovunque, appese ai muri e persino
negli ascensori, citate negli scritti e negli incontri ufficiali. I suoi
più stretti collaboratori, disponibili a dedicarsi interamente alla
causa, li ha riuniti in un associazione riconosciuta dalla diocesi di
Verona e li ha sigillati con il sigillo dell’Apocalisse (per questo
vengono chiamati i Sigilli). Ha costruito una fitta rete trasversale di
contatti e di amicizie. A livello mondiale è amico del (fu) Gheddafi e
di Fidel Castro. Nel mondo economico è stato finanziato da tutti, e
super finanziato in particolare dalla Cariplo di Roberto Mazzotta e da
Intesa San Paolo di Giovanni Bazoli. In politica è stato vicino agli
andreottiani, alla destra Dc e ai socialisti. Intimo di Bettino, ha
sempre amato, ricambiato, Silvio. Ora sta pure flirtando con Nichi
Vendola, appassionato sostenitore del progetto del nuovo SR del
Mediterraneo in quel di Taranto. Gli unici che non sopporta sono i
cattocomunisti, «la sinistra cattolica dossettiana e lapiriana,
giustizialista e pauperista, egalitaria e autoritaria».
Il prete-fondatore non ha mai avuto freni, e in questi ultimi anni ha
schiacciato ulteriormente sull’acceleratore. La sua volontà di
espansione ha assunto contorni megalomani. Deve lasciare a tutti costi
qualcosa di eterno. Tanto più che il suo “primo socio” non protesta
mai. Molto riservato, questo Signore. Più dV lo tira in ballo («È il mio
socio di maggioranza. Se lui dice “vai avanti”, io vado avanti e
fino a che lui mi viene dietro non mi fermo»), più Lui resta in
silenzio. Era certamente silenzioso e forse pure annoiato quel giorno
del 2008 quando il don posò un’enorme statua dell’arcangelo Raffaele
sulla cupola dell’ospedale milanese. La stessa cupola, quella del
nuovo dipartimento di Medicina molecolare, da cui già pendeva una
gigantesca doppia elica che rappresenta il dna, appena sopra la
riproduzione della barca di San Pietro. Forse questo socio ama la scure
più che il merletto. Ciò che tronca, semplifica, brutalizza, più che ciò
che gonfia, complica, appesantisce. Di sicuro non apprezza il rosso nei
bilanci e i mercanti nel tempio.
Perché tanto successo?
Seconda questione: perché il dV ha riscosso un così grande successo? La
risposta sembra facile. Il don ha stretto in una morsa la realtà e
l’ha piegata ai suoi sogni carismatici, e adesso l’opera è lì,
enorme, e fa del bene a tante persone, chi può negarlo? Come si fa a non
ammirarla? L’opera incanta gli esseri umani e a nulla vale allertare
sulla presenza di anomalie (uso un eufemismo). Chi si permette di
avanzare dei dubbi viene bollato per invidioso disfattista moralista
comunista. L’opera attira sempre consenso, a prescindere dalle
forzature (uso un altro eufemismo). Anzi, proprio le forzature producono
spesso un alone epico e provocano un aumento dell’ammira-zione.
Cos’è questa inesorabile tendenza a sottovalutare gli aspetti
negativi, appena questi si presentino, perché dopo è tardi? È un’altra
delle forme in cui si manifesta la banalità del male? Ah, se i biologi,
i filosofi, i teologi parlassero… Gli studiosi che si occupano di
soma-psiche-spirito dovrebbero pur pronunciarsi sul groviglio che siamo.
Qualcosa di noi è nella luce della razionalità e della moralità, ma
molto c’è di sommerso, brividi e spinte che risalgono dalla zona più
buie del nostro io e che spingono a mollare i freni e a partire per la
tangente. La storia insegna che purtroppo sono i chierici, coloro che
per tutta la vita hanno distillato belle parole e inseguito splendide
teorie, i primi a finire ammaliati dalla vista dell’opera, della
“carne”, anche quando questa è opaca, ammalorata, costruita su
parole sbagliate o menzognere.
In ultima istanza, il successo esagerato e prolungato di dV mi sembra
una tipica sottovalutazione della presenza del male. Libera nos a malo…
perché non recitiamo più il Padre Nostro?… Dai sicuri di sé, presuntuosi
e arroganti, dal cinismo di molti, dalle voglie di tanti, dall’egoismo
sdrucciolo che abbiamo tutti quanti, libera, libera nos Domine… da
quanto tempo non cantiamo più Guccini? Noi siamo perennemente assonnati
e non ci preoccupiamo mai del male in fase preventiva, al mattino,
quando l’opera sta sorgendo. Invece «la natura delle cose sta nel loro
nascimento»… da quanto tempo non studiamo più Gianbattista Vico? Men che
meno ce ne preoccupiamo sotto il sole di mezzogiorno. A quell’ora solo
applausi e champagne.
Ma la sera arriva presto, specie in ospedale. A disastro avvenuto siamo
costretti a intervenire. Ma lo facciamo sempre alla nostra maniera,
svogliatamente, superficialmente, senza incidere il tumore in radice.
Rimuoviamo il peccatore, l’egomaniaco, ma non vogliamo capire il
peccato, la patologia, e fare metanoia, cambiare mentalità. Vogliamo
tornare subito nel nostro letto. Il mondo non è che sonno. Il mondo
vuole la ripetizione addormentata del mondo. Il Vaticano che arriva con
zuavi e palafrenieri darà una sveglia?
Perché il Vaticano interviene?
Terza e ultima domanda: perché il Vaticano interviene? Il SR è laico,
senza alcun rapporto con le istituzioni ecclesiastiche. Il dV è partito
con l’idea che ormai non fosse più tempo di etichette confessionali e
con la volontà di mantenere le mani libere. È lo stesso dV a raccontare
spesso che, primi anni sessanta, gli fu proposto di fondere il suo
iniziale progetto con quello dell’Università Cattolica per dar vita al
Policlinico Gemelli e la cosa naufragò perché lui pretendeva che non ci
fosse scritto “cattolico” da nessuna parte. I problemi con la
gerarchia iniziarono in conseguenza del suo rifiuto di riservare due
posti nell’Opera San Romanello a uomini della Curia di Milano. Se il
concordato verrà approvato, il SR finirà proprio lì, nelle braccia del
Vaticano, dove il dV non avrebbe mai voluto andare. Stiamo assistendo a
una fantastica eterogenesi dei fini. Pare infatti che il cardinal
Bertone, vero dominus dell’intera operazione di salvataggio, coltivi
una strategia di acquisizione di università e ospedali cattolici per
creare un polo sanitario che colleghi l’Ospedale pediatrico Bambin Gesù
(già sotto controllo vaticano), il SR, il Policlinico Gemelli,
l’Istituto Dermopatico dell’Im-macolata di Roma (anch’esso coi
conti in rosso) e la Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni
Rotondo. Si costituirà un network cattolico: di più, Kattolico, con la
k.
Una tale operazione costa cara: richiede tanti soldi, e non solo,
almeno nel caso del SR anche un intervento sulla linea scientifica ed
etica. Il cardinale avrà certamente letto i faldoni della Segreteria di
Stato contenenti la documentazione dei numerosi contenziosi tra il SR e
l’autorità ecclesiastica e avrà visto che, mentre i dissidi dei primi
anni erano di natura pratica-mondana e disciplinare, in anni più recenti
si sono tramutati in nodi concettuali, in diversità di vedute e
comportamenti sui temi bioetici. Al SR si pratica da sempre la
fecondazione assistita, che la dottrina della Chiesa non permette. Sul
fine vita v’è un’apertura giudicata eccessiva: nel 2006 lo stesso dV
annunciò di aver “staccato la spina” ad un amico malato. Nelle carte
vaticane il Cardinale avrà rinvenuto traccia della critica più radicale:
l’accusa di eresia scientista. Dalle parti di Milano 2 si esalterebbe
la ricerca scientifica, segnatamente quella biologica, vista come
espressione più alta e nobile della libertà, via sacra della conoscenza,
il tutto senza il beneficio del dubbio. Si darebbe troppo spazio alla
medicina preventiva-predittiva, all’esame del dna, all’utilizzazione
delle cellule staminali, al controllo a distanza; la fede nella
guarigione scivolerebbe verso il mito huxleyano dell’immortalità.
Non penso che il Vaticano condivida in toto questa accusa. Così come
non valuto l’attuale gerarchia, che pure ha individuato da tempo nella
bioetica il fronte incandescente della nuova sfida antropologica, in
grado di opporre una chiara linea alternativa al pensiero-prassi del SR.
Se questi entrerà nel network non ci saranno, almeno a breve, drastici
cambiamenti dell’impostazione scientifica e bioetica. Prenderà, questo
sì, l’etichetta giusta e dovrà far numeri, ovvero soldi. Confezione e
quantità: queste sono le priorità del salesiano Bertone. Il dibattito
sul contenuto e sulla qualità, sul miglioramento della salute e
sull’incremento della longevità, è rinviato nell’aldilà.
La vita è lunga
Si può trarre una morale da questa storia, senza passar per maramaldi?
Il sugo è semplice (simplex sigillum veri, così finisce il suo best
seller L’anima e il suo destino Vito Mancuso, altro prof del SR, oggi
teologo fra i più noti al pubblico di sinistra ma anche lui muto come un
pesciolino rosso): è ora di tornare ai fondamentali. Chiamatelo abc,
chiamatelo buon senso, chiamatelo saggezza, chiamatelo come volete ma
chiamatelo e seguitelo! Mi sembra di sentire la voce di mio nonno
Ambrogio. Non fare mai il passo più lungo della gamba. Non fare debiti
e, se sei costretto a farli per comperare la casa, pagali subito. Non
andare dagli avvocati e non farti trascinare in tribunale. Accontentati
di quello che hai. Prima o poi i nodi (e i pidocchi, aggiungo io)
vengono al pettine. «Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il vino
con cuore lieto… in ogni tempo le tue vesti siano candide e il profumo
non manchi sul tuo capo… godi la vita con la sposa che ami, per tutti i
giorni della tua vita frugale… solo ricordati che Dio citerà in giudizio
ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene o male» (questo non è il
nonno, è il Qoelet). In questo tempo di apocalisse torniamo al genesi,
all’incipit, a vivere bene e, com’è scritto sulle ricette di cucina,
q.b., quanto basta.
Chissà cosa pensa in proposito il dV, che appena due anni fa sulle
colline di Lavagno, nel veronese, aveva messo la pietra del centro Quo
Vadis, la cittadella del benessere dove imparare a vivere fino ai 120
anni. Ma adesso quo vadis, dV? In un’intervista di qualche tempo fa a
un ex pugile passato dalle stelle del successo alle stalle della
povertà, ho letto una frase semplice e terribile che mi si è stampata
nel cervello: «non credevo che la vita fosse così lunga». È una frase
che ogni VIP dovrebbe ricopiare e tenere nel portafoglio, per
rileggersela ogni mese. Anzi sarebbe il caso che anche noi VNP (very
normal people) la incidessimo nella mente. Solo un anno fa la gloria del
padre splendeva infinita. Ricorda, dV? Tutti a spellarsi le mani, il 14
marzo 2010. È venuto anche il quasi Papa, il cardinale Martini, a dirle
cose sublimi. Quanti applausi, quel giorno! Ora c’è un assordante
silenzio, il telefono tace, nessuno bussa. O dV, sia sincero, vuole
ancora vivere fino a 120 anni? E allora non era meglio seguire i
consigli giusti e finire sazio di giorni invece di ridursi solo,
schiacciato da una montagna di debiti e macchiato dal sangue del
supersigillo suicida?
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Giovanni Colombo
libero
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cancellato.
Vi trasmetto l' articolo che ho scritto sulla vicenda del San Raffaele
per la rivista Il Margine.
Di questa illuminante storia italiana si occuperà anche Report nella puntata
di domenica 11 dicembre.
Chi ci salverà? Forse le Banche, la Massoneria, il Vaticano?
Da anni sento sotto i piedi l' abisso. E da anni, per non scivolarci dentro, mi
aggrappo a un filo d'erba. Mi ci aggrappo... e tiene...
Ci risentiamo nel 2012, auguri di un bianco Natale
Giovanni
p.s. Allego anche l'email che ho scritto a settembre sul caso Penati e
che molti di voi non hanno ricevuto.
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«Non credevo che la vita fosse così lunga»
Note in libertà su don Verzè e il San Raffaele
L’unico che poteva scrivere un vero articolo su don Luigi “Maria”
Verzè – il «Maria» è una libera aggiunta del don, di seguito “il
dV” – e sulla sua creatura, il San Raffaele – «pietra di Dio
che guarisce», di seguito “il SR” – non c’è più. Era Mario Cal,
il suo braccio destro, l’amico fraterno, il Supersigillo (vedi sotto
chi sono gli esoterici Sigilli), per 21 anni vicepresidente operativo
della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor (di seguito “la
Fondazione”). Il 18 luglio scorso si è sparato un colpo in testa,
lasciando due lettere e 12 scatoloni di documenti ora all’esame dei
giudici.
Un altro che dovrebbe scrivere ma non può più farlo, per le sue
precarie condizioni di salute, è il cardinale Carlo Maria Martini. Un
vero peccato, avrebbe potuto spiegarci meglio le sue parole del 14 marzo
2010, durante la festa per il 90° del dV (sul palco dei festeggiamenti
c’erano, insieme col Cardinale, Silvio Berlusconi e Ferruccio de
Bortoli), così riportate il giorno dopo dal Corriere della Sera
(articolo a p. 8 di Paolo Foschini): «Lo amo e lo stimo tanto – dice
Martini … Martini ha pronunciato l’elogio genetliaco del suo amico
“San Luigi” (un lapsus applaudito: “Ho precorso i tempi” ha
poi scherzato il Cardinale) elencandone le doti: “audacia
dell’aquila, coraggio del leone, passo felpato dell’antilope”.
E dicendone la “prudenza del serpente” ha citato il corrispondente
termine greco, che implica “saggezza ma anche astuzia e direi
furbizia”».
Altri ancora che dovrebbero sentire l’urgenza morale di scrivere sono
i filosofi dell’Università Vita – Salute (sulla nascita della facoltà
vedi la mia invettiva La strana coppia Cacciari – don Verzè, “Il
Margine” 6/2002). Nomi d’eccellenza, dotati di altissima visibilità
mediatica. Parlano su tutto ma proprio su tutto, in particolare sulle
nefandezze dell’amico del dV (tema arcinoto e in fondo neanche così
eccitante), non hanno molto da fare, almeno in Università (gli iscritti
al primo anno sono una ventina), ma finora non hanno trovano il tempo e
l’ardire di interrogarsi in profondità su quel che sta succedendo in
via Olgettina. Dopo qualche dichiarazione sulla “libertà non
negoziabile” assicurata dal prete, si sono chiusi in un
incomprensibile silenzio. E dire che la materia su cui philosophari è
piuttosto ampia.
Ubi deficiunt equi, trottant aselli. Accontentatevi dunque di qualche
nota in libertà di un quidam de populo. Provo a riassumere per punti lo
stato dell’arte.
Lo stato dell’arte (a fine ottobre 2011)
1. Il SR è una potenza sanitaria di prim’ordine. Sorto nel 1969
nell’hinterland milanese per ispirazione divina («Il nostro primo
azionista è Cristo», ha detto più volte il dV) e dall’iniziativa
dell’Associazione Centro di Assistenza Ospedaliera S. Romanello
(trasformatasi poi nella Fondazione), è un’eccellenza in Italia e in
Europa, una vedetta della ricerca, una struttura privata accreditata che
accoglie decine di migliaia di pazienti, e a cui la Regione Lombardia
versa ogni anno più di 400 milioni. Nel corso degli anni l’attività
della Fondazione si estende ben oltre l’IRCCS (Istituto di Ricovero e
Cura a Carattere Scientifico) di Milano 2: si va dagli altri ospedali in
Italia e all’estero (India e Brasile), all’Università Vita –
Salute (facoltà di medicina, psicologia, filosofia), dalle società di
servizi e di edilizia alle biotecnologie, dai laboratori di ricerca alle
aziende agricole, dagli alberghi di lusso a una casa editrice.
2. Questa imponente corporation, dopo aver attraversato varie e anche
burrascose crisi di crescita, negli ultimi anni scivola progressivamente
in una profonda crisi finanziaria. All’inizio del 2011 diventa urgente
trovare un nuovo assetto patrimoniale e gestionale. L’amico Silvio
viene sentito per primo. Ma la sentenza della Corte d’Appello sul Lodo
Mondatori – che ha imposto a Fininvest il pagamento di 560 milioni di
euro alla holding di Carlo De Benedetti – congela le intenzioni del
premier, non più in grado di venire incontro alle necessità dell’amico
prete. Mentre si ipotizza una cordata di salvatori, guidata da Giuseppe
Rotelli, uno dei maggiori imprenditori della sanità lombarda e italiana,
si mette in moto il segretario di Stato Vaticano, il cardinal Tarcisio
Bertone, con due suoi uomini di fiducia, il banchiere Ettore Gotti
Tedeschi, presidente dello IOR, e il manager della sanità Giuseppe
Profiti, presidente dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma.
3. Esaminata la situazione, il cardinal Bertone decide di intervenire.
Il 15 luglio una nuova squadra entra nel Cda della Fondazione: oltre a
Profiti e Gotti arrivano altri due uomini di Bertone, l’ex
guardasigilli Giovanni Maria Flick e l’imprenditore cattolico genovese
Vittorio Malacalza. Completano il board Massimo Clementi, preside della
facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Vita Salute, e
Maurizio Pini, professore di accounting della Bocconi. Il dV resta sì
Presidente ma senza più deleghe operative. A Profiti, nominato
vicepresidente, toccano tutti i poteri di ordinaria e straordinaria
amministrazione.
4. Tre giorni dopo, il 18 luglio, si suicida Mario Cal. Nessuna
dichiarazione ufficiale da parte della Fondazione.
5. Le pressioni della Procura di Milano per avere quanto prima un piano
di risanamento costringono il Cda al lavoro per tutta l’estate. I
revisori di Deloitte, il superconsulente Enrico Bondi, i legali dello
Studio Origoni chiariscono le cifre: i debiti ammontano a un miliardo e
mezzo di euro; solo nel primo semestre del 2011 le perdite si attestano
sui 40 milioni di euro; ci sono centinaia di fornitori dell’ospedale
che non vengono pagati da due anni e sono anch’essi sull’orlo del
fallimento.
6. Il 14 settembre viene presentata al Cda l’offerta dello Ior e di
Vittorio Malacalza. Essa prevede il salvataggio di quasi tutte le
attività ospedaliere e di ricerca con il relativo personale (3.800
dipendenti). Il corrispettivo è di 250 milioni di euro, oltre
all’accollo di passività stimabili in circa 500 milioni di euro.
Secondo il progetto, le attività e le passività saranno trasferite a una
nuova società: controllata da quest’ultima nascerà una Fondazione che
avrà esclusivamente compiti di salvaguardia dello spirito originale e
che potrà continuare a ricevere i contributi del cinque per mille. La
vecchia fondazione incasserà il valore della nuova società, dismettendo
le attività rimaste e pagando i creditori (i privilegiati in forma
piena, i chirografari in una misura ridotta, dal 52 al 60 per cento).
7. Mentre il Cda analizza il progetto, il 23 settembre la Procura di
Milano, constatato lo stato di insolvenza, chiede il fallimento del SR.
Il Cda della Fondazione si dà una mossa: il 7 ottobre approva
definitivamente l’offerta Ior-Malacalza e dà mandato ai legali di
presentarla, sotto forma di richiesta di concordato preventivo, al
Tribunale fallimentare. Il 21 ottobre si dimettono all’improvviso i
consiglieri Massimo Clementi e Maurizio Pini: «per motivi strettamente
personali», recita il comunicato ufficiale.
8. Il 28 ottobre il Tribunale di Milano dà il via libera alla proposta
di concordato preventivo e nomina come commissari Rolando Brambilla,
Luigi Giovanni Saporito e Salvatore Sanzo. A loro spetta il compito di
“sorvegliare” un Cda in palese conflitto d’interessi con gli
offerenti Ior- Malacalza e di tenere aperta la porta ad altre eventuali
offerte. I creditori hanno tempo fino al 23 gennaio 2012 per esprimersi
sulla proposta: senza la loro approvazione, il piano salterà.
Da questi dati emerge una situazione non ancora definitiva ma dai
contorni già chiari. È finito il SR di dV e, come capita alla fine di
ogni epoca importante, c’è da riflettere a lungo per capire, imparare,
cambiare. Per questo – ripeto – è sorprendente il silenzio dei
maitres à penser. Perché non parla almeno lui, il capo indiscusso,
Massimo Cacciari? «Ormai è la mia voce» disse dV in un’intervista del
2007. In attesa di qualche cenno dell’alto, pongo io tre domande dal
basso. Sono le stesse che si fa pure la mia portinaia (non scherzo,
l’ho testata, non siamo al livello della Renèe de L’eleganza del
riccio ma quasi). Alle domande rispondo con la mia opinione, la mia
doxa. Di doxa in doxa possiamo tentare di avvicinarci alla verità,
all’aletheia, allo svelamento (tutto con la minuscola, le maiuscole
non sono in nostro potere).
Chi è don Verzè?
Prima domanda: ma chi è davvero il dV? L’ho visto di persona solo in
due occasioni, ho letto alcune sue interviste, ho raccolto pareri da
dipendenti del San Raffaele e ho letto svogliatamente uno dei suoi
libri, Siamo tutti nella stessa barca, scritto a quattro mani con il
cardinale Martini (sempre lui!), pubblicato nel 2009. Come posso
giudicarlo? Infatti non lo giudico, faccio solo parlare la mia pelle
(Pelle per pelle, tra l’altro, è il titolo della autobiografia scritta
con Giorgio Gandola, edita da Mondadori nel 2004). Secondo me il dV, a
dispetto dell’abito di manager, giacca e cravatta d’ordinanza, e
delle sue ardite proposte di riforma della Chiesa, è un tipico prete
veneto della generazione preconciliare. E come tutti (o quasi) i preti
di quella generazione si sente un eletto che non è tenuto a rispettare
le regole del mondo. Ciò spiega la sua allergia per le leggi (è stato più
volte indagato e condannato in primo grado, salvato in seguito dalla
prescrizione) e la sua totale avversione per il pareggio di bilancio.
Dio mi ha chiamato, io ho risposto, son diventato prete, non sono più
come gli altri cittadini, son legibus solutus, la Provvidenza
provvederà, chi può fermarmi? Così pensa il prete vecchio stampo
della cristianità lombardo-veneta.
Per di più, dV è un prete che vuole diventare un fondatore. La tensione
per l’opera l’ho vista da vicino in molti parroci ambrosiani che si
sono dannati l’anima pur di costruire chiese e oratori (è stato
chiamato il “culto della pietra”). In dV questa tensione s’è fatta
ossessione, spinta irrefrenabile verso obiettivi altissimi, per superare
pure il suo maestro, il beato Giovanni Calabria. Ogni fondatore, per
essere tale, deve usare un linguaggio immaginifico, biblico-sacrale;
deve attorniarsi di seguaci fedelissimi; deve cercare alleanze con i
potenti di turno. E tutto questo ha fatto dV, dimostrando un’abilità e
una spregiudicatezza fuori dal comune. I suoi discorsi slittano
facilmente dalla scienza alla fede, dalla teologia alla taumaturgia. Al
SR i simboli e le frasi bibliche sono ovunque, appese ai muri e persino
negli ascensori, citate negli scritti e negli incontri ufficiali. I suoi
più stretti collaboratori, disponibili a dedicarsi interamente alla
causa, li ha riuniti in un associazione riconosciuta dalla diocesi di
Verona e li ha sigillati con il sigillo dell’Apocalisse (per questo
vengono chiamati i Sigilli). Ha costruito una fitta rete trasversale di
contatti e di amicizie. A livello mondiale è amico del (fu) Gheddafi e
di Fidel Castro. Nel mondo economico è stato finanziato da tutti, e
super finanziato in particolare dalla Cariplo di Roberto Mazzotta e da
Intesa San Paolo di Giovanni Bazoli. In politica è stato vicino agli
andreottiani, alla destra Dc e ai socialisti. Intimo di Bettino, ha
sempre amato, ricambiato, Silvio. Ora sta pure flirtando con Nichi
Vendola, appassionato sostenitore del progetto del nuovo SR del
Mediterraneo in quel di Taranto. Gli unici che non sopporta sono i
cattocomunisti, «la sinistra cattolica dossettiana e lapiriana,
giustizialista e pauperista, egalitaria e autoritaria».
Il prete-fondatore non ha mai avuto freni, e in questi ultimi anni ha
schiacciato ulteriormente sull’acceleratore. La sua volontà di
espansione ha assunto contorni megalomani. Deve lasciare a tutti costi
qualcosa di eterno. Tanto più che il suo “primo socio” non protesta
mai. Molto riservato, questo Signore. Più dV lo tira in ballo («È il mio
socio di maggioranza. Se lui dice “vai avanti”, io vado avanti e
fino a che lui mi viene dietro non mi fermo»), più Lui resta in
silenzio. Era certamente silenzioso e forse pure annoiato quel giorno
del 2008 quando il don posò un’enorme statua dell’arcangelo Raffaele
sulla cupola dell’ospedale milanese. La stessa cupola, quella del
nuovo dipartimento di Medicina molecolare, da cui già pendeva una
gigantesca doppia elica che rappresenta il dna, appena sopra la
riproduzione della barca di San Pietro. Forse questo socio ama la scure
più che il merletto. Ciò che tronca, semplifica, brutalizza, più che ciò
che gonfia, complica, appesantisce. Di sicuro non apprezza il rosso nei
bilanci e i mercanti nel tempio.
Perché tanto successo?
Seconda questione: perché il dV ha riscosso un così grande successo? La
risposta sembra facile. Il don ha stretto in una morsa la realtà e
l’ha piegata ai suoi sogni carismatici, e adesso l’opera è lì,
enorme, e fa del bene a tante persone, chi può negarlo? Come si fa a non
ammirarla? L’opera incanta gli esseri umani e a nulla vale allertare
sulla presenza di anomalie (uso un eufemismo). Chi si permette di
avanzare dei dubbi viene bollato per invidioso disfattista moralista
comunista. L’opera attira sempre consenso, a prescindere dalle
forzature (uso un altro eufemismo). Anzi, proprio le forzature producono
spesso un alone epico e provocano un aumento dell’ammira-zione.
Cos’è questa inesorabile tendenza a sottovalutare gli aspetti
negativi, appena questi si presentino, perché dopo è tardi? È un’altra
delle forme in cui si manifesta la banalità del male? Ah, se i biologi,
i filosofi, i teologi parlassero… Gli studiosi che si occupano di
soma-psiche-spirito dovrebbero pur pronunciarsi sul groviglio che siamo.
Qualcosa di noi è nella luce della razionalità e della moralità, ma
molto c’è di sommerso, brividi e spinte che risalgono dalla zona più
buie del nostro io e che spingono a mollare i freni e a partire per la
tangente. La storia insegna che purtroppo sono i chierici, coloro che
per tutta la vita hanno distillato belle parole e inseguito splendide
teorie, i primi a finire ammaliati dalla vista dell’opera, della
“carne”, anche quando questa è opaca, ammalorata, costruita su
parole sbagliate o menzognere.
In ultima istanza, il successo esagerato e prolungato di dV mi sembra
una tipica sottovalutazione della presenza del male. Libera nos a malo…
perché non recitiamo più il Padre Nostro?… Dai sicuri di sé, presuntuosi
e arroganti, dal cinismo di molti, dalle voglie di tanti, dall’egoismo
sdrucciolo che abbiamo tutti quanti, libera, libera nos Domine… da
quanto tempo non cantiamo più Guccini? Noi siamo perennemente assonnati
e non ci preoccupiamo mai del male in fase preventiva, al mattino,
quando l’opera sta sorgendo. Invece «la natura delle cose sta nel loro
nascimento»… da quanto tempo non studiamo più Gianbattista Vico? Men che
meno ce ne preoccupiamo sotto il sole di mezzogiorno. A quell’ora solo
applausi e champagne.
Ma la sera arriva presto, specie in ospedale. A disastro avvenuto siamo
costretti a intervenire. Ma lo facciamo sempre alla nostra maniera,
svogliatamente, superficialmente, senza incidere il tumore in radice.
Rimuoviamo il peccatore, l’egomaniaco, ma non vogliamo capire il
peccato, la patologia, e fare metanoia, cambiare mentalità. Vogliamo
tornare subito nel nostro letto. Il mondo non è che sonno. Il mondo
vuole la ripetizione addormentata del mondo. Il Vaticano che arriva con
zuavi e palafrenieri darà una sveglia?
Perché il Vaticano interviene?
Terza e ultima domanda: perché il Vaticano interviene? Il SR è laico,
senza alcun rapporto con le istituzioni ecclesiastiche. Il dV è partito
con l’idea che ormai non fosse più tempo di etichette confessionali e
con la volontà di mantenere le mani libere. È lo stesso dV a raccontare
spesso che, primi anni sessanta, gli fu proposto di fondere il suo
iniziale progetto con quello dell’Università Cattolica per dar vita al
Policlinico Gemelli e la cosa naufragò perché lui pretendeva che non ci
fosse scritto “cattolico” da nessuna parte. I problemi con la
gerarchia iniziarono in conseguenza del suo rifiuto di riservare due
posti nell’Opera San Romanello a uomini della Curia di Milano. Se il
concordato verrà approvato, il SR finirà proprio lì, nelle braccia del
Vaticano, dove il dV non avrebbe mai voluto andare. Stiamo assistendo a
una fantastica eterogenesi dei fini. Pare infatti che il cardinal
Bertone, vero dominus dell’intera operazione di salvataggio, coltivi
una strategia di acquisizione di università e ospedali cattolici per
creare un polo sanitario che colleghi l’Ospedale pediatrico Bambin Gesù
(già sotto controllo vaticano), il SR, il Policlinico Gemelli,
l’Istituto Dermopatico dell’Im-macolata di Roma (anch’esso coi
conti in rosso) e la Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni
Rotondo. Si costituirà un network cattolico: di più, Kattolico, con la
k.
Una tale operazione costa cara: richiede tanti soldi, e non solo,
almeno nel caso del SR anche un intervento sulla linea scientifica ed
etica. Il cardinale avrà certamente letto i faldoni della Segreteria di
Stato contenenti la documentazione dei numerosi contenziosi tra il SR e
l’autorità ecclesiastica e avrà visto che, mentre i dissidi dei primi
anni erano di natura pratica-mondana e disciplinare, in anni più recenti
si sono tramutati in nodi concettuali, in diversità di vedute e
comportamenti sui temi bioetici. Al SR si pratica da sempre la
fecondazione assistita, che la dottrina della Chiesa non permette. Sul
fine vita v’è un’apertura giudicata eccessiva: nel 2006 lo stesso dV
annunciò di aver “staccato la spina” ad un amico malato. Nelle carte
vaticane il Cardinale avrà rinvenuto traccia della critica più radicale:
l’accusa di eresia scientista. Dalle parti di Milano 2 si esalterebbe
la ricerca scientifica, segnatamente quella biologica, vista come
espressione più alta e nobile della libertà, via sacra della conoscenza,
il tutto senza il beneficio del dubbio. Si darebbe troppo spazio alla
medicina preventiva-predittiva, all’esame del dna, all’utilizzazione
delle cellule staminali, al controllo a distanza; la fede nella
guarigione scivolerebbe verso il mito huxleyano dell’immortalità.
Non penso che il Vaticano condivida in toto questa accusa. Così come
non valuto l’attuale gerarchia, che pure ha individuato da tempo nella
bioetica il fronte incandescente della nuova sfida antropologica, in
grado di opporre una chiara linea alternativa al pensiero-prassi del SR.
Se questi entrerà nel network non ci saranno, almeno a breve, drastici
cambiamenti dell’impostazione scientifica e bioetica. Prenderà, questo
sì, l’etichetta giusta e dovrà far numeri, ovvero soldi. Confezione e
quantità: queste sono le priorità del salesiano Bertone. Il dibattito
sul contenuto e sulla qualità, sul miglioramento della salute e
sull’incremento della longevità, è rinviato nell’aldilà.
La vita è lunga
Si può trarre una morale da questa storia, senza passar per maramaldi?
Il sugo è semplice (simplex sigillum veri, così finisce il suo best
seller L’anima e il suo destino Vito Mancuso, altro prof del SR, oggi
teologo fra i più noti al pubblico di sinistra ma anche lui muto come un
pesciolino rosso): è ora di tornare ai fondamentali. Chiamatelo abc,
chiamatelo buon senso, chiamatelo saggezza, chiamatelo come volete ma
chiamatelo e seguitelo! Mi sembra di sentire la voce di mio nonno
Ambrogio. Non fare mai il passo più lungo della gamba. Non fare debiti
e, se sei costretto a farli per comperare la casa, pagali subito. Non
andare dagli avvocati e non farti trascinare in tribunale. Accontentati
di quello che hai. Prima o poi i nodi (e i pidocchi, aggiungo io)
vengono al pettine. «Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il vino
con cuore lieto… in ogni tempo le tue vesti siano candide e il profumo
non manchi sul tuo capo… godi la vita con la sposa che ami, per tutti i
giorni della tua vita frugale… solo ricordati che Dio citerà in giudizio
ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene o male» (questo non è il
nonno, è il Qoelet). In questo tempo di apocalisse torniamo al genesi,
all’incipit, a vivere bene e, com’è scritto sulle ricette di cucina,
q.b., quanto basta.
Chissà cosa pensa in proposito il dV, che appena due anni fa sulle
colline di Lavagno, nel veronese, aveva messo la pietra del centro Quo
Vadis, la cittadella del benessere dove imparare a vivere fino ai 120
anni. Ma adesso quo vadis, dV? In un’intervista di qualche tempo fa a
un ex pugile passato dalle stelle del successo alle stalle della
povertà, ho letto una frase semplice e terribile che mi si è stampata
nel cervello: «non credevo che la vita fosse così lunga». È una frase
che ogni VIP dovrebbe ricopiare e tenere nel portafoglio, per
rileggersela ogni mese. Anzi sarebbe il caso che anche noi VNP (very
normal people) la incidessimo nella mente. Solo un anno fa la gloria del
padre splendeva infinita. Ricorda, dV? Tutti a spellarsi le mani, il 14
marzo 2010. È venuto anche il quasi Papa, il cardinale Martini, a dirle
cose sublimi. Quanti applausi, quel giorno! Ora c’è un assordante
silenzio, il telefono tace, nessuno bussa. O dV, sia sincero, vuole
ancora vivere fino a 120 anni? E allora non era meglio seguire i
consigli giusti e finire sazio di giorni invece di ridursi solo,
schiacciato da una montagna di debiti e macchiato dal sangue del
supersigillo suicida?
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Giovanni Colomb.. libero
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